Antiquarium Arborense - Museo archeologico Giuseppe Pau OristanoAntiquarium Arborense - Museo archeologico Giuseppe Pau Oristano

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Antiquarium Arborense
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Contenuti

La collezione Efisio Pischedda

Maschera apotropaica (che allontana il male). Artigianato cartaginese. Terracotta. Prima metà del VI sec. a.C. Tharros. Necropoli fenicia settentrionale

I materiali prenuragici

La raccolta Pischedda presenta una selettiva visione delle culture prenuragiche della Sardegna, in funzione dello spirito che animava i ricercatori ottocenteschi nelle "stazioni" preistoriche dell'Oristanese.
La ceramica in frammenti risultava poco attraente per questi "archeologi-antiquari" che preferivano raccogliere strumenti in ossidiana e selce integri.
Ne consegue che la sezione preistorica della collezione Pischedda, benché sia la più ricca di materiali dell'intera collezione, appare piuttosto carente sotto il profilo della documentazione di vaste fasi della preistoria sarda.
Una serie di microliti geometrici, di forma trapezoidale, provenienti da stazioni del Sinis potrebbero ascriversi all'orizzonte più antico del neolitico sardo e mediterraneo in genere, che nell'aspetto di "Su Carroppu - Sirri" raggiunge la metà del VI millennio a.C., secondo la determinazione cronologica delle ossidiane rinvenute nel riparo sotto roccia eponimo.
Ricerche recenti nel terralbese hanno, comunque, documentato anche nell'Oristanese, un chiaro neolitico cardiale, caratterizzato da ceramiche decorate con il margine dentellato di una conchiglia del genere cardium e, appunto, da microliti geometrici.
A Terralba un livello con ceramiche cardiali e microliti è sovrapposto ad un più antico livello caratterizzato esclusivamente da un'industria litica in ossidiana (microliti geometrici) che potrebbero attestare un neolitico preceramico.
Nella raccolta Pischedda non si evidenziano sicure testimonianze del neolitico medio (cultura di Bonuighinu) che copre la prima metà del IV millennio a.C., se ad essa non si vogliono riportare i microliti geometrici, pure ben rappresentati nella cultura di Bonuighinu, come eredità del neolitico antico.
Ancora alla tradizione del neolitico medio, ma già in una fase iniziale nel neolitico superiore si ascrive un mestolo con manico a nastro del tutto simile ad esempi di Cuccuru is Arrius-Cabras e della grotta di Filiestru-Mara.
In massima parte i materiali preistorici della collezione Pischedda appartengono alla cultura Ozieri, inquadrabile tra il neolitico superiore e il protocalcolitico.
Dalle etichette applicate agli utensili litici ed alle ceramiche d'impasto deduciamo che il Pischedda acquisì materiali provenienti dal Sinis di Cabras ( centri di Cuccuru is Arrius, Conca Illonis, S.Perdu, Pala 'e Casteddu, Sa Mestia, S'utturu s'Arrei, Archidori, S.Agostino, Sa Chea 'e sa Feurra, Zeurrada, S.Giorgio, Serra 'e Cresia, Serra sa Idda, Serra Crastu, S.Salvatore, Palumbas, Sa Piredda), S.Vero Milis (Costa Atzori) , Riola (S. Jacci) e Nurachi (centro indeterminato).
I primi due insediamenti, Cuccuru is Arrius e Conca Illonis, sulle sponde della vasta laguna di Mar'e Pontis ( Cabras), si sono rivelati alla luce delle più recenti indagini i villaggi preistorici più vasti dell'Oristanese e tra i maggiori dell' intera Sardegna.
Ancorchè le indagini moderne abbiano rivelato la natura pluristratificata di quei due siti e, nel caso di Cuccuru is Arrius, abbiano messo in luce la necropoli a grotticelle artificiali del neolitico medio con corredi di altissimo valore culturale ed artistico (statuette di dea madre di tipo volumetrico) è indubbio che la fase di cultura Ozieri sia quella meglio rappresentata.
Nella raccolta Pischedda a questa cultura si ascrive la maggior parte delle centinaia di punte di freccia triangolari peduncolate, talora con alette ed a ritocco bifacciale ricoprente, di punte di zagaglia a foglia di lauro, di lame di ossidiana e selce, di accettine in pietra dura levigata, prevalentemente trapezoidali, ma talvolta triangolari.
La ceramica rappresenta una ridotta minoranza: si individuano frammenti di pissidi con peducci, di vasi a cestello, di vasi emisferici talora ornati da bande tratteggiate, con incrostazioni di pasta bianca.
Alcuni manufatti ceramici della collezione Pischedda si ascrivono invece alle culture eneolitiche di Abealzu-Filigosa e di Monte Claro.
si tratta di due vasetti miniaturitici biconici-carenati a colletto cilindrico, confrontabili con i materiali della tomba eponima della cultura a Filigosa-Macomer. Infine, alcuni frammenti di ceramica di Conca Illonis-Cabras si riportano alla cultura di Monte Claro.
All’aspetto culturale campaniforme, collocabile tra Eneolitico e Bronzo antico, si assegnano un vaso tripode a vasca emisferica, una piccola olla e un frammento di forma analoga decorate a punti impressi a pettine.
A forme transizionali fra il Campaniforme e la cultura di Bonnanaro è riportabile, a giudizio di Vincenzo Santoni, un «vaso tripode inornato a cuenco, con orlo sbiecato e piedi a robusto nastro di sezione ellittica ».
Un gruppo di vasi integri di cultura Bonnanaro della collezione Pischedda dovrebbero derivare da corredoi tombali: non può escludersi, a tener conto della prevalente provenienza dal Sinis dei reperti preistorici della raccolta dell’ avvocato, che anche le ceramiche Bonnanaro appartenessero a qualche domus de janas del Sinis, quali quelle di Serra is Araus o di Sa Rocca tunda (San Vero Milis) che hanno restituito in indagini recenti materiali di questa cultura.
Tra i vasi Bonnanaro spiccano un tripode monoansato, un secondo tripode con i piedi frammentati, dotato di ansa a rialzo asciforme, due ciotoloni carenati ugualmente con ansa a gomito.

I materiali nuragici

La civiltà nuragica, documentata in oltre un centinaio di nuraghi e villaggi nuragici nel Sinis, attrasse solo episodicamente gli interessi del Pischedda.
Solo eccezionalmente è attestato un frammento di fondo di tegame a decorazione a pettine, con un motivo punteggiato documentato nell’ Oristanese a Cuccuru is Arenas, Bau ‘e Porcus e Madonna del Rimedio (Oristano), Murru Mannu (Tharros), San Giovanni (Villaurbana-Siamanna).
Il lotto più cospicuo del materiale nuragico, accolto nella Raccolta Pischedda, è costituito da 175 vasi miniaturistici provenienti dal Nuraghe Sianeddu, nel Sinis di Cabras.
I vasi costituivano un deposito da ipotizzarsi di carattere votivo costituito in prossimità dello stesso nuraghe complesso, interessato da uno scavo di recupero anteriormente agli inizi del secolo XX, poichè vennero illiustrati nel 1901, da Giovanni Pinza nella sua memoria lincea sui «Monumenti primitivi della Sardegna» .
I vasi, in varia scala dimensionali, ripetono prevalentemente la tipologia dell’ olletta globulare a colletto verticale, biansata o tetransata, con coperchietto piano a presa a bottoncino o con ansetta.
Gli impasti variano dal tono ocra, al bruno-rossastro, al grigio, al nero, con una cura particolare della superficie interna.
Nel territorio oristanese depositi consimili sono documentati nella collezione Antonio Falchi (da Su Pallosu-San Vero Milis) e da Corrighias-Cabras (ricerche P. e G. Atzori).
La cronologia del deposito parrebbe oscillare tra il Bronzo Finale e la Prima età del Ferro, ossia tra la fine del XII secolo ed il IX-VIII sec. a.C., con preferenza per la cronologia alta.
Altre ceramiche nuragiche di diversa provenienza nella collezione Pischedda documentano le fasi più avanzate della civiltà nuragica, corrispondenti alla prima età del Ferro ed all’ Orientalizzante (IX-VII secolo a.C.): si tratta di tre brocchette askoidi, una delle quali ancora nella tradizione del Bronzo Finale, come specifica un preciso confronto con una brocchetta nuragica rinvenuta in un contesto dell’ Ausonio II (Lipari). Le altre due sono imparentate strettamente con esemplari del IX - VIII secolo a.C.
Infine una «fiasca da pellegrino» decorata da motivi a spina di pesce e confrontabile con una vasta produzione indigena ispirata a modelli vicino-orientali, forse con la mediazione cipriota, si riporta alla fase più tarda di questa forma ceramica, nel corso del VII secolo a.C.

I bronzi nuragici

Nella collezione Pischedda erano rappresentati quattro bronzi figurati di cultura nuragica, trafugati in occasione del furto subito dall’ Antiquarium Arborense nel 1966. Si trattava della testina cilindrica residua di una statuina di guerriero, di un cinghiale in corsa, di un pendaglietto a biprotome bovina e di due navicelle.
La prima, a protome bovina, con scafo a basso parapetto a traforo zigzagato, e albero con coffa sormontata da anellino e colomba.
La seconda barchetta a protome di antilope o bovina fu rinvenuta nello scavo di una tomba romana: il bronzo, evidentemente considerato prezioso, fu forse rinvenuto in uno scavo «archeologico» del periodo romano ovvero scoperto casualmente, entro il I secolo a.C. Il proprietario sardo-romano, Se(xtus) Nip(ius), fece incidere con la tecnica a puntinato il suo nome abbreviato sul fondo e sul fianco.
I bronzi nuragici residui sono costituiti da due «faretrine», un piccone, due asce bipenni, asce a margini rialzati, punte foliate di lancia, un martello da fabbro, una panella a sezione piano convessa, e spilloni a capocchia modanata.
Il complesso dei bronzi si assegna al periodo compreso tra il Bronzo finale e la Prima età del ferro documenta sia l’attività metallurgica di una bottega nuragica forse del Sinis(panella e martello), sia le principali tipologie di bronzi d’uso, a partire dalla comune e ben attestata nella collezione Pischedda ascia a margini rialzati, alle asce bipenni.
Le due «faretrine» appartengono ad una tipologia specificatamente nuragica, caratteristica della Prima età del Ferro e dell’ Orientalizzante.
Si tratta di talismani o insegne di potere miniaturistiche, costituite da una piastrina enea triangolare con la raffigurazione su un lato di un pugnaletto e sull’altro tre o due stiletti, ovvero un secondo pugnaletto.
Le «faretrine» sono state individuate sia in contesti nuragici, sia in tombe fenicie tharrensi, sia, infine, in ambito etrusco.
La scoperta nella necropoli fenicia di Bithia di un defunto, evidentemente di estrazione sarda, con tre stiletti e un pugnaletto in bronzo, da ritenersi fissati in una faretra in mteria deperibile (cuoio ?), ha dimostrato che i talismani traducono in forme miniaturistiche originali di dimensioni funzionali.
Gli esemplari della collezione Pischedda presaentano il primo su un lato un pugnaletto ad elsa gammata e sull’altro un pugnaletto inguainato; il secondo un pugnaletto su una faccia e tre stiletti sull’altra.
Quest’ultimo esempio, per la cursività di realizzazione, è affine strettamente ad una nutrita serie di «faretrine» rinvenute in tombe fenicie di Tharros, per cu non si deve escludere che esso derivi dagli scavi del Pischedda nelle sepolture del VII secolo a.C. della necropoli di S. Marcu.

I materiali fenici e punici

La colonizzazione fenicia del Mediterraneo diffuse nei diversi insediamenti della Sicilia,della Sardegna, dell'Africa, di Ibiza e dell'Iberia meridionale, la pratica funeraria prevalente della cremazione dei defunti.In Sardegna sono documentate le necropoli fenicie di Nora, Bithia, Monte Sirai, Pani Loriga, Othoca, Tharros, S.Giovanni di Sinis e S'Uraki-San Vero Milis.
Dagli scavi condotti dal Pischedda nella necropoli fenicia di Santu Marcu (S.Giovanni di Sinis) e, forse, anche nell'area funeraria di Is Forrixeddus di S.Giusta (necropoli di Othoca) proviene uno dei più ampi lotti di ceramica fenicia della Sardegna.
Le tombe più antiche scavate dal Pischedda dovevano ascriversi alla metà del VII secolo a.C.: a tali deposizioni devono ascriversi un tripod bowl, una base per anfora, noto in Sardegna a Sulci, Bithia e a Othoca, una coppa a pareti verticali e una serie di cinerari ovoidali a due manici.
Tra VII e VI secolo a.C. si scagliona la gran parte delle ceramiche fenicie della collezione: i corredi dovevano essere costituiti generalmente da brocche con orlo a fungo e a orlo bilobato, piatti ombelicati, oil-bottles, dipper-jugs oltre al vasellame etrusco e greco, le armi in ferro e i gioielli.
Nell'esposizione assumono particolare rilievo le numerosissime brocche con orlo a fungo, tipico vaso funerario fenicio
Il corpo delle brocche può essere cilindrico, ovoide, troncoconico; il collo, bitroncoconico o cilindrico-troncoconico, è provvisto di una incisione mediana semplice o duplice.L'orlo delle brocche appare talvolta convesso, mentre in alcuni esemplari si presenta piatto con bordo rialzato.
Queste brocche, talvolta, presentano ancora l'ingubbiatura biancastra o giallastra, con il corpo ornato da linee anulari nere.
Pure ben rappresentato nella collezione Pischedda è la brocca ad orlo bilobato, talvolta con ingobbio rosso limitato all’orlo e all’ansa.
Tra la ceramiche fenicie si segnalano in particolare gli askoi ornitomorfi, di schietta ascendenza vicino orientale, ossia delle piccole fiaschette foggiate a forma di volatili con alucce e testa con beccuccio, talora ingobbiate in rosso, e riportabili alla seconda metà del VII secolo a.C.
In corrispondenza con la prevalente indagine nella necropoli fenicia a discapito di quella cartaginese, peraltro devastata negli scavi di rapina della metà del secolo XIX, è la scarsità di ceramiche puniche della collezione Pischedda.
Tra i reperti più significativi si segnalano brocchette trilobate, ispirate a modelli ateniesi del V e del IV secolo a.C.; piatti decorati a fasce sottili rosse e nere, affini ai «piatti da pesce» attici; lucerne a conchiglia bilicni riferibili al IV ed al III secolo a.C.

I materiali greci ed etruschi

Durante l'età arcaica ( 620- 480 a.C. ) Tharros raggiunse uno sviluppo straordinario basato, essenzialmente, sul commercio transmarino. È possibile che il grano delle fertili pianure tharrensi e il sale delle grandi saline presso Capo Mannu, fossero i beni essenziali dello scambio commerciale. I partners d'oltremare dei tharrensi possono identificarsi sulla base dei materiali d'importazione che componevano i corredi funerari fenici (e in piccola parte punici) acquisiti dal Pischedda: Etruschi di Caere, Vulci e Tarquinia , Greci di Corinto, della Laconia( Sparta) e di Atene.
Nell'epoca arcaica le navi commerciali trasportavano spesso émporoi (mercanti) di varia nazionalità, tutti desiderosi di condurre in porto lucrosi affari. Dobbiamo perciò immaginare il porto di Tharros con alla fonda navi
di varia provenienza, accanto alle imbarcazioni tharrensi che solcavano il mare dirette nei più diversi porti mediterranei.
La ceramica etrusca delle collezione Pischedda(600-540 a.C.) comprende soprattutto vasellame in bucchero destinato al simposio: abbiamo vasi per bere ( kantharoi un calice ed una kylix) e brocche per versare il vino (oinochoai), insieme ad anforette che parrebbero, tuttavia, un tipo di contenitore specificatamente funerario.
Il vasellame etrusco di imitazione corinzia comprende sia, ancora, coppe per il vino della bottega ceretana del Gruppo a Maschera Umana e dell' atelier vulcente del Pittore delle Code Annodate, che decoravano i loro vasi con volatili schematizzati, sia contenitori di profumi globulari (aryballoi) e piriforme(alabastron), sia infine delle pissidine (una delle quali del Gruppo a Maschera Umana). Non sono rappresentati in questa collezione i piatti tarquiniesi del Pittore senza graffito, documentati nell'abitato di Tharros.
Da Corinto proviene un aryballos decorato dal motivo a quadrifoglio, tipico del 575-550 a.C., coevo ai due aryballoi, a vernice nera, con fasce paonazze suddipinte, di fabbricazione laconica .
A corredi di tombe cartaginesi si riferiscono le ceramiche ateniesi rappresentate nella vetrina: si tratta di vasellame a figure nere, a figure rosse ed a vernice nera.
Al primo gruppo appartiene una lekythos con palmette e boccioli di loto del «Pittore della Strega», una coppetta miniaturistica a decoro floreale(floral-band cup) ed una coppa-skyphos con Eracle che lotta con il toro di Creta, ascrivibile al «gruppo di Haimon», ascrivibili al 500-470 a.C.
I vasi a figure rosse si riducono ad una lekythos ariballica con Menade impugnante un tirso e a due askoi-guttoi rispettivamente con un cigno inseguito da una pantera e con una palmetta, riportabili al 400-375 a.C.
Tra le ceramiche a vernice nera ateniesi si segnalano due kylikes ad alto piede(525-500 a.C.), una coppa del tipo stemless with inset lip (470-450 a.C.)
Ad età tardo-punica (III sec. a.C.) si riportano askoi-guttoi a protome leonina di atelier laziale ed un boccale in ceramica grigia di bottega ampuritana (Catalogna), che potrebbe scendere al II secolo a.C.

Le terrecotte, i gioielli, i bronzi fenicio e punici

La politica d’acquisto delle raccolte di antichità tharrensi attuata dal Pischedda nel tardo Ottocento consentì di arricchire la sua raccolta con prestigiose terrecotte figurate provenienti dalle fastose tombe puniche di Tharros.
Una maschera virile ghignante, decorata da incisioni circolari radiate e da «pastiglie» applicate sulla fronte, appartiene alla categoria delle maschere apotropaiche, deputate cioé a distogliere i demoni dal sonno dei defunti con il loro aspetto orrido. Da Tharros provengono altri due esemplari, conservati rispettivamente al British Museum e nel Museo archeologico cagliaritano. La maschera dell’ Antiquarium si riporta alla prima metà del VI secolo a.C.
Alla fine del VI devono attribuirsi due statuine di dea stante con disco al petto, di remota tipologia orientale, segnate da influssi ionici nella resa del volto, segnato dal «sorriso» arcaico.
Uno straordinario kernos è caratterizzato dalla protome di Herakles con la spoglia del leone di Nemea, ravvivato da una policromia marcata. La terracotta della metà del IV secolo a.C. è del tutto analoga ad un esemplare del Bardo (Tunisi) da Cartagine, mentre nel Museo di Cartagine è esposto un terzo esemplare di dimensioni minori. Il kernos documenta il culto ad Herakles-Melqart, il dio fenicio, attestato a Tharros da un’iscrizione del III secolo a.C.
La nostra terrecotta, scoperta nella necropoli di Tharros anteriormente al 1858, appartenne in origine alla collezione Paolo Spano di Oristano, dove fu vista dal Canonico Giovanni Spano che la pubblicò nel Bullettino Archeologico Sardo del 1858.
La coroplastica a matrice dell’ Antiquarium Arborense comprende inoltre statuine femminili con il moggio in testa e il velo a conchiglia, suonatrici di doppio flauto, maschere muliebri, bruciaprofumi a testa femminili con il kernos, il vaso rituale della liturgia eleusina del IV-III secolo a.C.
Una figurina lavorata al tornio, raffigurante un personaggio maschile con braccio destro sul petto e (in origine) braccio sinistro sul capo a sostenere la lucerna, rappresenta l’unica attestazione tharrense nella collezione Pischedda di una tipologia ben documentata in Sardegna (Nora, Bithia, Monte Sirai, Sulci, Neapolis, Narbolia, Nuraxinieddu, San Vero Milis, Seneghe, Cornus), Sicilia (Mozia), Africa (Cartagine, Utica) e, soprattutto, Ibiza (santuario dell’ Illa Plana).
Tuttavia il Pischedda potè acquisire da una favissa di Nuraxinieddu tre terrecotte lavorate ugualmente al tornio, tra cui un arto inferiore , una testina con base discoidale e una figuretta di un devoto risanato da una malattia indicata con la positura della mano (III secolo a.C.)
I corredi fenici di Tharros presentavano, frequentemente, gioielli in oro e, soprattutto, in argento: pendenti decorati dall’ «idolo a bottiglia» fiancheggiato da serpenti urei dotati del disco solare, ovvero ornati dal globo solare e dalla falce di luna; orecchini a cestello, a croce ansata ed a bastoncello arrotondato; un bracciale decorato a sbalzo con palmette di tipo fenicio; sigilli-scarabei in pasta vitrea e in pietra talcosa, montati in argento.Di essi, in seguito al furto del 1966, è presente una ridottissima testimonianza.
Ancora ad ambito fenicio del VII secolo a.C. si attribuisce un coperchio circolare di un cofanetto d’avorio, decorato dal motivo a treccia, tipico delle coppe fenicie in oro o argento.
Al periodo cartaginese, e più in dettaglio al V ed al IV secolo a.C., si riferivano una trentina di scarabei in diaspro verde con motivi egittizzanti, di ambito etrusco-ionico ed ellenistico, di botteghe di incisori tharrensi, derivati alla collezione Pischedda dalle tombe di Tharros, anch’essi scomparsi nel furto del 1966.
A testimonianza della fase punica restano gusci di uova di struzzo (allusivi all’idea di rigenerazione), un contenitore di olio profumato in vetro blu su nucleo di fango, decorato da smalti bianchi ( alabastron della prima metà del V secolo a.C.), alcuni «rasoi»( accettine magico-religiose) e astucci portamuleti in bronzo.

Ossi, avori e artigianato metallico romano

I materiali romani della collezione Pischedda derivano in larga parte da scavi e ritrovamenti casuali di tombe di Tharros e del Sinis. A parte stanno alcuni frammenti di sculture marmoree che potrebbero far parte di sarcofagi ovvero di statuine decorative da ambito abitativo.
In dettaglio si hanno due teste di putti, il busto di un personaggio del corteo dionisiaco, connesso forse al culto di Bacco documentato a Tharros da una statua di Dioniso, ed un frammento di braccio pertinente ad una statua panneggiata in marmo bianco a grossi cristalli.
Da tombe derivano vari specchi circolare in bronzo che hanno perduto l’argentatura che assicurava la funzionalità dell’ oggetto, aghi crinali, ed elementi di cofanetti in osso (placchette e bottoncini).
Dell’ immensa serie di preziose gemme, incastonate o meno in anelli, orgoglio della collezione Pischedda, residua un unico esemplare in cristallo di rocca con due cornucopie. In occasione del furto del 1966 scomparvero un centinaio di gemme in diaspro, corniola, onice, agata, ametista, sardonica, granata, con motivi iconografici svariatissimi, dalla Vittoria alata, alla testa di Serapide, ai Dioscuri, alle Parche, a Pallade, Afrodite, Bacco e Medusa.

Le lucerne romane

Il gusto del Pischedda, deliziosamente retro allo scorcio del secolo XIX, suggerì all’ Avvocato di riunire le sue ottanta lucerne romane in un’unico reparto dello scaffale G della sua raccolta, privando del loro contesto funerario le singole lampade.
In questa esposizione rivive così l’animo del collezionista antiquario innamorato dei «lumi de’ Tolomei» evocato dalla goldoniana «Famiglia dell’antiquario».
L’arco cronologico rappresentato dalle lucerne romane della collezione Pischedda è esteso tra l’età tardo-repubblicana e il periodo basso-imperiale. Abbiamo lucerne a tazzina del II-I secolo a.C.,le lucerne a volute con becco a coda di rondine, caratterizzate specialmente da temi gladiatori, della fine del I secolo a.C. -prima metà del I secolo d.C., le lucerne a disco, con becco tondo, estese tra la fine del I secolo d.C. e gli inizi del IV secolo d.C.
Sul disco di quest’ultima serie di lucerne viè una ampia serie di motivi figurati, tra cui spiccano i personaggi divini (tre busti di Giove-Serapide, le tre Grazie), le scene di caccia, gli animali(leoni, struzzi, scorpioni, etc.), gli oggetti (il timone della nave, il caduceo, allusivo al dio Mercurio, etc.), le foglie di quercia,
In numerosi esemplari è inciso o impresso il nome del fabbricante, che agevola l’individuazione delle botteghe ( principalmente africane, romane e sarde) di pertinenza.
I marchi di fabbrica sono i seguenti: C(aius) Oppi(us) Res(titutus), C(aius) Iun(ius) Drac(o), L(ucius) Num(atius) Suc(cessus), C(aius) M(arius) Eupor, C(aius) Clo(dius) Suc(cessus), L(ucius) Fab(ricius) Mas(culus), i Pullaieni, titolari di fabbriche di lucerne e di statuette nei praedia Pullaienorum, in territorio di Vchi Maius, nell’ Africa proconsolare, ed infine i Memmi, probabilmente attivi in Tharros o nell’agro tharrense, cui si assegnano i prodotti di Q(uintus) Mem(ius) Kar(us) e soprattutto di Q(uintus) Mem(mius) Pud(ens).

Il vasellame fine da mensa romano

Nelle tombe tharrensi erano presenti come elemento comune di corredo i vasi da mensa, legati al rituale della deposizione nel sepolcro di cibo e bevanda per lo spirito del defunto, che, peraltro, riceveva ulteriore nutrimento in occasione dei Parentalia, le feste per i defunti celebrate nel mese di febbraio. A Tharros, nella necropoli settentrionale, localizzata nel fossato delle fortificazioni di Murru Mannu, si individuano delle tombe a bauletto, provviste di una fistula libitoria, ossia di un tubo che idealmente conduceva fino alle ceneri del defunto cibi e bevande, in occasione del banchetto rituale consumato sulle mense funerarie, erette in muratura presso le stesse tombe.
Il vasellame da mensa era, in linea di massima, importato da botteghe specializzate, a seconda dei periodi dalla penisola italiana, dalla Gallia meridionale e dall’ Africa proconsolare.
Al II e I secolo a.C. appartengono le ceramiche a vernice nera, prodotte nelle botteghe della Campania (Campana A) e dell’ Etruri (Campana B). Si tratta di piatti e coppe rigorosamente lisci o decorati da palmette o rosette stampigliate sul fondo interno, talora circondate da corone anulari di striature a rotella.
Tra la metà del I secolo a.C. e tutto il I secolo d.C. i Tharrensi utilizzarono per i loto banchetti ceramiche verniciate color rosso corallo, prodotte ad Arretium (Arezzo) -ceramiche aretine- ed in altri ateliers della Penisola, soprattutto in area etrusca (Pisa) -ceramiche sigillate italiche e tardo italiche.
In contemporanea con le più tarde produzioni italiche si importarono vasi da mensa dalla Gllia narbonense (Provenza) anche nella varietà «marmorizzata», caratterizzata dal tono giallo a venature rosse della vernice, esclusivo della bottega di La Graufesenque.
A partire dal principio della seconda metà del I secolo d.C. iniziarono a diffondersi a Tharros, così come nell’ intero settore occidentale dell’ Impero romano ( e minoritariamente ad Oriente) le ceramiche di produzione Africana, denominate «sigillate chiare», dotata di pasta e vernice rosso-arancio.
Tra le forme in sigillata chiara della produzione più antica (convenzionalmente denominata “A”) presenti nella collezione Pischedda spicca un piatto emisferico ad orlo estroflesso contenente ancora la “cena dei morti”, composta dalla lisca di un mugilide, che riflette un comune piatto della cucina tharrense, il muggine(arrosto o lesso) derivato da uno di quei «stagna pisculentissima» (stagni pescosissimi) che lo scrittore Solino segnala in Sardegna nel III secolo d.C.
I vasi potori, destinati alle libagioni d’acqua o di vino annacquato, erano costituiti prima della larga diffusione del vetro da boccalini, bicchieri e tazze “a pareti sottili” prodotti sia nella penisola italiana, sia in quella iberica. Gli esempi della collezione Pichedda si ascrivono al I secolo d.C.

La ceramica comune romana

Questa categoria ceramica annovera sia produzioni locali, sia vasellame di botteghe extra-sarde, in particolare dell’ Africa proconsolare.
Sono attestate brocchette a corpo sferoidale e collo allungato, ad orlo circolare o trilobato, fiasche, tra cui un esemplare della “fiasca da pellegrino”, boccali,n coperchi, tegami e casseruole (ricadenti nell’ ambito della “ceramica africana da cucina”) ed urne ed olle globulari, cilindriche e troncoconiche, prive di anse o con anse schiacciate sul ventre, utilizzate come cinerari nel corso dell’ estrema età repubblicana e nei primi secoli dell’ era volgare. Il Pischedda curò la conservazione dei resti umani incinerati riempiendo un’ unica urna, oggi colma di ossa umane calcinate. Nella stessa vetrina è conservata una lastra di marmo con epitafio di un Publio Sulpicio Rogato, defunto all’ età di 37 anni, 10 mesi ed 11 giorni ed onorato dal fratello:

D(is) M(anibus)
P(ublius) Sulpicius Ro
gatus vix(it) annis
XXXVII, m(ensibus) X, d(iebus) XI,
fecit frater
b(ene) m(erenti)

C.I.L. X 7905.

La lastra venne rinvenuta in una necropoli di Tharros da un contadino di Cabras prima del 1859; in quell’ anno il Canonico giovanni Spano tentò inutilmente di acquistarla, rinunciandovi infine a causa dell’esosità della richiesta del Crabarisso.
Solo un secolo dopo il Comune di Oristano riuscì nell’ impresa acquistando l’ epitafio dagli eredi dello scopritore per la cospicua cifra di 10000 lire, fissata dal soprintendente Gennaro Pesce.

I vetri romani

Ad affascinare l’ Avvocato Pischedda erano soprattutto le iridescenze delle olle cinerarie in vetro soffiato e degli unguentari e degli altri vasi vitrei, provenienti dagli scavi di Giovanni Busachi a Tharros e Cornus, dove è nota in età romana l’attività di botteghe vetrarie.
Il Pischedda acquistò l’importante collezione di vetri dagli eredi Busachi riuscendo così a possedere una raccolta che rivaleggiava con le collezioni di vetri dei Musei di Cagliari e di Sassari, approvvigionatesi alle stesse fonti.
Le olle cinerarie, ovoidali, con coperchio provvisto di presa a pomello, prive di manici o con anse a omega, rientrano nei tipi 66 e 67 della classificazione dello Ising e sono databili tra il I e gli inizi del II secolo d.C.
Rilevante è l’ampia serie di unguentari piriformi, dall’altissimo collo a stelo, destinati a cotenere preziose essenze profumate (I-III secolo d.C.).
Non mancano piatti, bottiglie e bicchieri in vetro verde e azzurro destinati a costituire in origine il servizio da mensa delle aristocrazie locali ed a seguire il proprietario nel sepolcro.

Le ceramiche alto-medievali

Alla fase altomedievale, corrispondente al periodo vandalico (circa 455- 534 d.C.) e bizantino (534- circa X secolo ), si riportano ceramiche e lucerne rinvenute in sepolture di Tharros e del suo territorio.
Si evidenziano in particolare una lucerna con la menorah (candelabro eptalicne) riportabile ad un membro defunto della comunità giudaica di Tharros, attestata anche da un’epigrafe (funeraria ?) incisa su un basolo stradale riutilizzato, ora al Museo di Cagliari, alcun lampade «mediterranee» con simboli cristiani, del V secolo d.C., e altre lucerne ugualmente riportabili alla stessa produzione ma con altri motivi sul disco.
Si annoverano anche ceramiche vandaliche e bizantine in sigillata africana (tipo “D”) legate al servizio da mensa (scodelle e una brocchetta) e ceramica comune, tra cui brocchette con decorazione a pettine;
La testimonianza più significativa della collezione Pischedda relativa a questa fase è una eulogìa fittile (timbro per pani benedetti ) proveniente dalla località di san Giorgio di Cabras, sede di un insediamento bizantino, con edificio chiesastico, intitolato a San Giorgio megalomartire, e di un archivium che ha restituito sigilli in piombo pendenti in origine da un’ottantina di pergamene, estese nel tempo tra il V e il XII secolo.
L’ eulogìa reca nel campo l’ immagine stante del santo orante tra due rami di palma e l’ iscrizione: o a[gio]s / [Ge]orgios (il san Giorgio); lungo la cornice anulare corre la formula di benedizione: + eulog[ia toy Kirio]y ke endoxoy m[eg]aleos Georgi[oy] : «La benedizione del Signore e del glorioso grande Giorgio (sia con te)».
Il timbro, analogo ad esempi del Mueo Bizantino di Atene, può riportarsi al VII secolo.

Anfore romane

Un gruppo di anfore romane, pertinente a diversi relitti individuati nei fondali antistanti la costa oristanese, è esposto presso il plastico ricostruttivo di Tharros.
La gran parte delle anfore appartiene ad età repubblicana, comprendendo anfore vinarie greco-italiche, forse del III secolo a.C., e contenitori di vino del tipo «Dressel I» di produzione etrusca o campana del II secolo a.C.
Alcune anfore iberiche usate per il trasporto della salsa di pesce putrefatto, detta garum (tipo «Dressel 7-14») derivano da un grande relitto, saccheggiato intorno al 1950 presso la cala di S’Archittu -Cuglieri (Torre del Pozzo-1).
Isolata è un’anfora vinaria gallica, dalla caratteristica forma del corpo a trottola, della fine del I -II secolo d.C. (tipo «Pelichet 47»).
Infine si annoverano due anfore «africane» a corpo cilindrico, pasta rossa ed ingobbio giallastro, contenenti olio dell’ Africa proconsolare( II secolo d.C.).

Multimedia

Tharros. Necropoli meridionale. Askòs configurato kline (letto per il banchetto) con due coniugi. IV sec. a.C.
Herakles kernophoros (Busto di Eracle- Melqart recante in testa il vaso rituale detto kernos). Terracotta policroma. Artigianato di Cartagine.IV sec. a.C. Tharros. Necropoli meridionale.
Urna cineraria con anse a omega e coperchio in vetro soffiato verde. I secolo d.C.
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